Anche durante la seconda ondata epidemica la regione spicca come la regione italiana più colpita dal coronavirus. Di mezzo ci sono fattori demografici e sociali, ma anche molte altre possibili ragioni e spiegazioni. Il dott. Dario Sannino ha raccolto gli elementi più rilevanti.
Perché proprio la Lombardia, ci si chiedeva a marzo. Perché di nuovo la Lombardia, ci si domanda ora. Dai numeri pare evidente: dopo essere stata l’area più colpita dalla pandemia di Covid-19 durante la prima ondata in primavera, pure in autunno ha il triste primato di regione capofila per numero di casi positivi, di ricoveri in terapia intensiva e di decessi.
Certo, il fatto che la Lombardia sia prima per distacco tra le regioni italiane in termini di abitanti (con oltre 10 milioni di persone) può trarre in inganno, perché naturalmente i numeri assoluti risultano fisiologicamente più grandi, a parità di condizioni.
Ma anche ragionando in termini relativi, come mostra la mappa per province della distribuzione di casi al chilometro quadrato elaborata di seguito, la Lombardia ospita le due provincie attualmente più colpite dalla pandemia: Monza e Brianza per prima, poi Milano per seconda. Ed è lombarda pure la quarta, Varese, con il podio mono-regionale delle province rovinato dall’inserimento al terzo posto di Napoli.
Ma torniamo alla domanda iniziale: perché? La doverosa premessa è che a oggi non ci sono evidenze scientifiche ma solo ipotesi, seppur sostenute da alcune valutazioni che spaziano dal buonsenso alle indicazioni generali fornite dalla comunità scientifica. E poi, soprattutto, non è detto che le varie ipotesi si escludano a vicenda, ma anzi è probabile che l’effetto finale sia determinato da una sovrapposizione di diversi fattori.
Milano, e la Lombardia tutta, non si ferma
Al di là delle citazioni, il primo punto da considerare è che la Lombardia non è solo la regione più popolosa d’Italia, ma anche la più densamente abitata (alla pari con la Campania). Inoltre, in quanto cuore pulsante dell’economia, è la regione con il maggior Pil e pure il maggior Pil pro capite (in realtà seconda alla Valle d’Aosta, che però è ultima per densità abitativa).
Questo non per azzardare strane correlazioni spurie, ma per sottolineare come la Lombardia sia una delle aree del paese in cui gli scambi, gli spostamenti, l’affollamento dei mezzi pubblici e in generale i rapporti interpersonali (e dunque le occasioni di contagio) sono più intensi. Ciò vale in generale nel raffronto città-periferia, da cui pare evidente come i grandi centri siano più facilmente luogo di accumulo dei casi di infezione.
La questione dell’affollamento può poi trovare concretizzazione nelle più svariate situazioni. Dalle metropolitane agli autobus e ai treni, dai centri commerciali ai negozi, tanto per citare attività tutt’ora permesse dalle misure di contenimento.
Temperatura e inquinamento?
Sono due temi che sono stati largamente dibattuti, sia dall’opinione pubblica sia tra scienziati. Oramai è noto che il caldo in sé non provoca né la sparizione né l’infiacchimento del virus, ma allo stesso tempo può avere un’azione indiretta. Come? Dove fa più caldo si tende a stare più a lungo all’aperto, si possono arieggiare di più gli spazi chiusi e si può per esempio consumare un pasto al ristorante stando fuori anche durante le mezze stagioni.
Insomma, specialmente nei mesi primaverili e in quelli autunnali è innegabile che le condizioni climatiche al Nord siano molto diverse da quelle delle regioni meridionali, e che quindi al sud si possa beneficiare per più mesi dell’effetto estate in termini di distanziamento e di possibilità di non rinchiudersi in case, uffici e locali. E se tutto questo non può distinguere Milano da Torino o da Trieste, può contribuire a farlo rispetto a Napoli o a Bari.
Sull’inquinamento, meglio sgomberare il campo dalle bufale. Il virus non viaggia a cavallo del particolato atmosferico e non ha senso parlare di aria infetta, ma semplicemente l’esposizione a lungo termine al particolato fine e ultrafine rende le persone più vulnerabili alle infezioni. Specialmente se di natura respiratoria, e questo è stato dimostrato da un’analisi scientifica condotta negli Stati Uniti. In questo senso la Lombardia non è molto diversa da tante altre regioni che si affacciano sulla super-inquinata Pianura padana, ma di nuovo si tratta di una variabile che gioca a sfavore della Lombardia.
L’effetto storia
Con buona pace dei sostenitori della teoria dell’immunità di gregge per la Covid-19, il fantomatico effetto di protezione a lungo termine sembra piuttosto agire al contrario, con gli stessi territori già martoriati che sono di nuovo più colpiti rispetto agli altri. Una possibile spiegazione è di natura storica, naturalmente riferita a ciò che è successo nell’ultimo anno.
Se la Lombardia è la regione dove il Sars-Cov-2 ha iniziato a circolare per primo, e dove ha raggiunto la massima penetrazione tra le persone, è possibile che da allora il virus sia rimasto più presente lì che in tutte le altre regioni. Nonostante nei mesi estivi i dati ufficiali mostrassero una diffusione dei casi maggiore altrove, non è detto che questi fotografassero fedelmente la circolazione reale. Come sappiamo, infatti, il tema dei casi sotto traccia, specialmente se asintomatici, è un problema non risolto.
Spiegazione alternativa, ma in un certo senso complementare, è che nei mesi estivi il contagio si sia distribuito per l’Italia con gli spostamenti delle vacanze, e che poi – al rientro – i casi si siano di nuovo addensati in Lombardia.
O ancora, si può sostenere che l’effetto del lockdown (durato lo stesso numero di giorni in tutta Italia) sia stato in Lombardia meno risolutivo che altrove. Se la circolazione del virus non si è mai azzerata, il punto di ripartenza della seconda ascesa esponenziale in Lombardia potrebbe essere stato più in alto che nelle altre regioni. Una differenza di fatto impercettibile finché i numeri totali erano molto bassi, ma che poi è esplosa con il passare delle settimane e il trend di crescita sempre più rapido.
Mala gestione e maleducazione?
Paiono entrambe ipotesi piuttosto azzardate. Che la presunta colpa del numero più alto dei contagi sia imputabile all’inefficienza del sistema sanitario lombardo, o a responsabilità specifiche degli amministratori locali ai vari livelli, sembra più una sparata politica che un fatto dimostrabile. Se da un lato è vero che l’Italia tutta non ha fatto abbastanza per tentare di scongiurare la seconda ondata, è un po’ estremo sostenere che la Lombardia sia la regione con la peggior sanità nazionale o in assoluto con i peggiori amministratori comunali e regionali. Gli spazi di miglioramento sono enormi, e lì più che altrove sarebbe stato necessario e utile intensificare l’attività di monitoraggio e di contact tracing.
Lo stesso si può dire anche delle persone. Se è vero che dalle cronache sono emersi casi di comportamenti inopportuni, qualcosa di analogo vale in qualunque regione e in qualunque provincia italiana. Anzi, lo scotto pagato dalla Lombardia durante la prima ondata sta probabilmente facendo da deterrente psicologico alle imprudenze molto più che altrove.
Casualità e fluttuazioni
I possibili fattori da valutare sono potenzialmente infiniti. Dal numero medio di inquilini per abitazione alla propensione al mangiare fuori casa, dal numero medio di contatti stretti giornalieri alla distribuzione delle persone per fasce d’età, dalle abitudini sociali più peculiari della Lombardia al tempo trascorso quotidianamente a bordo dei mezzi pubblici. Insomma, è probabile che una risposta scientificamente solida non si avrà mai.
Per concludere la carrellata delle spiegazioni, esiste un’ultima possibilità: che non ci sia alcuna spiegazione. Ossia, che semplicemente per fattori del tutto casuali l’epidemia abbia colpito più la Lombardia che altrove. In fondo in tutti i paesi si notano differenze statistiche importanti da un’area all’altra, con il solo trend comune dei casi che si tendono ad accumulare nelle metropoli. E poi, va detto, per questa questa seconda ondata la Lombardia è sì la regione in cui l’epidemia è più diffusa e grave, ma il distacco con altre regioni come il Piemonte, il Lazio, la Toscana e la Campania non è abissale, soprattutto una volta che i numeri sono stati rapportati all’effettiva popolazione regionale.
Ci ricordiamo tutti, per esempio, quelle settimane di marzo in cui si cercava di capire perché l’Italia avesse più casi della Francia, della Germania o del Regno Unito. Domanda che, con il senno di poi, si è scoperto non avere nemmeno così tanto senso di esistere, visto come sono poi evolute le cose e quanto le strategie politiche abbiano pesato sulle curve epidemiche nazionali.